Appunti dalla Peste: il racconto è il vaccino




La scorsa settimana non sono usciti gli "Appunti della Peste".
E' stata una scelta, lì per lì, abbastanza spontanea: il format nasce come informale e tra la stanchezza e i festeggiamenti per il compleanno ho pensato che tutto sommato non era un problema mancare un appuntamento. Ci avevo anche provato, in tutta sincerità, a scrivere qualcosa, ma i risultati erano retorici e forzati. 
Ma c'è anche qualcos'altro, di più profondo e vero. 

Questa rubrica nasce come una occasione per stare davanti alla cattedra crudele della Peste raccogliendo insegnamenti e consapevolezze per il domani. 
La scorsa settimana non ce l'ho fatta a stare lì seduto, serafico, davanti ad un male che trita, con i suoi denti, vite e giornate. 
L'ingombranza della peste, che ha saturato da tempo le conversazioni, i sogni e le paure di tutti noi è massiccia. Bisogna poter maledire ciò che è male: dire che una cosa cattiva è "male" è uno dei nostri processi più intimi (è una correlazione che costruiamo prima dell'autocoscienza) e ci rende esseri attivi rispetto al mondo. 

Questo peso che ora spezza tutte le aspettative sulla fine di un anno horribilis non è il peso di Dicembre. E' il peso di una condizione che ha caratterizzato definitivamente almeno 280 giorni dalla prima "chiusura" del paese ad oggi (9 Marzo 2020-13 Dicembre 2020). 
Questi giorni sono stati oppressi da avvenimenti tragici: i cari persi, nella solitudine e nell'impotenza, le condizioni economiche disastrose, la malattia, i disagi psichici. E' doveroso però, e dopo spiegherò perché, enumerare anche quel mosaico di cose piccine e brillanti aggrigito dalla Peste: i giorni di scuola persi, le convivenze troncate, i baci mancati, i saluti a distanza, i gelati e le vacanze abbandonati al sole, i ritiri spirituali, i musei e i concerti lasciati soli. 

Ognuno di noi ha vissuto delle dimensioni dolorose squisitamente soggettive. In un momento come questo, dove migliaia di morti vengono pianti ogni settimana senza sosta, sembra quasi inopportuno dirselo. Ma c'è chi ha dovuto, come me, interrompere una delle esperienze "della vita" (per me il QAR), c'è chi si è lasciato, ci sono famiglie esplose, carriere fiaccate, studi abbandonati. Ci sono sogni messi in pausa a tempo indeterminato, ci sono mesi persi senza i nipoti, ci sono le paure che hanno agitato le notti tutte uguali e tutte diverse di un paese. 

Tante "piccole" cose. Il dolore di ognuno però ha un peso assoluto, sciolto dall'esperienza altrui e la consolazione del "c'è qualcuno che sta peggio di me" zittisce ma non lenisce. 

Tornando indietro, scorrendo questi 280 giorni, ci sono tasti toccati un'ultima volta che ora suonano dolorosi, rinunce amare messe da parte per andare avanti, per farsi forza. 
Quando ci dissero di lasciare Rondine e Arezzo, i luoghi di un sogno che si costruiva, io l'ho letta come una opportunità per crescere ulteriormente. Era necessario andare avanti, non buttarsi giù e potevo prenderla come una sfida. Questo mi ha permesso di non mollare la spugna e, in qualche occasione, di ravvivare anche l'animo dei miei compagni di viaggio.
Qualche giorno fa, leggendo un appunto fatto da mia mamma in quella occasione, ho riportato al cuore quei giorni. Inaspettatamente mi sono messo a piangere. Dico inaspettatamente perché credevo di essere, dopo così tanto tempo, sereno e di avervi trovato un posto a certi avvenimenti. Non è così. 
E', la mia esperienza, una cosina piccola eppure per me molto significativa. Salutare gli amici e scoprire di non potersi rivedere, la frustrazione di una didattica di fortuna, l'abbandono di un contesto che avevo "conquistato" è stato molto triste per me. 
Tra i sacrifici più dolorosi di questa catastrofi ci sono i dolori individuali ed assoluti di ognuno taciuti e messi da parte per andare avanti. Il vero vaccino, ovvero ciò che ci libererà una volta per tutti dalle ombre della quarantena, sarà raccontarsi.
Per liberarci di questa stagione triste e grigia servirà trovare le parole per abitare le sofferenze di ognuno, finalmente restituiti dall'emergenza sanitaria alla sana soggettività. Cosa ci ha tenuto svegli nelle lunghe notti insonni del Covid? 

Raccontare non è come il dire. Il racconto presuppone un ascoltatore e non ha la pretesa logica del discorso. Racconto è una parola che ricorda il mito o la favola e l'intimità della sera. Raccontare è affidare la propria storia ad un Altro, ricucire quelli strappi violenti causati dalla solitudine di questi mesi. 
E' la prerogativa del dolore quello di spaccare i legami, amplificata dalle misure sanitarie. 
Sogno una fine della Peste dove coppie di amici e amanti, intere famiglie, giovani e vecchi si raccontano cosa è stato questo periodo. Senza soppesare le vite né pretese risolutive. Significherebbe riconciliarci, scoprire un noi nelle parole prestate e rubate per dare voce alla propria Vita. 
Il dialogo, oltre ad avere un comprovato valore psicologico, potrà essere la nuova trama di un tessuto sociale e relazionale che non vada più avanti secondo il passo marziale del sacrificio ma secondo il ritmo dolce della comunione.

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