Nella soglia della morte. Pasqua 2021.

 Chi vuole conoscerti, o Dio, deve misurarti senza misura
(San Bernardo)

Noi in verità
non sappiamo, sai,
noi
non sappiamo
cosa
vale
(P. Celan "Zurich, zum Storchen")
Scrive Dostoevskij: 
"La fede si riduce a questo problema angoscioso: un uomo colto, un europeo dei nostri giorni può credere, credere proprio, alla divinità del figlio di Dio, Gesù Cristo?"

Il cuore dell'esperienza di Gesù, per come ci è stata raccontata, è quella della morte e resurrezione. Cosa dice a noi, colti e disillusi? Dobbiamo iniziare dalla fine, dalla morte. Non tanto la morte come minaccia angosciosa, ma come esperienza limite di ognuno: il termine della vicenda individuale e il confine del nostro potere. Su questa soglia, al limite, veniamo attirati dal Racconto. Lì, al limite, sta forse la matrice di tutta la vita, il cuore della nostra individualità, la radice della condizione umana. Sulla soglia. E oltre?

Partiamo, dunque. Si parla di un uomo che muore e vive ancora, non grazie alla reincarnazione ma attraversando la morte. Questa storia è rilevante per noi perché pretende di ribaltare l'unica indiscutibile esperienza umana: il morire. Amiamo in modo diverso, piangiamo in modo differentemente l'uno dall'altro etc etc. L'ultimo respiro è lo stesso per tutti. Gesù di Nazareth nella sua vita - così come ci è trasmessa - propose un ordine nuovo per ogni parte dell'esistenza umana. Un nuovo sguardo sui poveri, sul corpo, sulla giustizia, sulla religione e sullo Stato etc etc. Ognuno di noi abita queste situazioni con una certa diversità, soprattutto se relativizziamo il presente rispetto all'ampiezza della Storia. E' possibile, inoltre, giungere a diverse di quelle indicazioni che dà Gesù senza una rivelazione. E' possibile, per la società umana, progredire nella giustizia, nella cura dei poveri, nell'educazione alla non-violenza. Alla fine di tutto ciò, però, sta la morte. 

Una parola ultima che non può essere smentita da nessuna etica o da nessuna miglioria sociale. L'agire umano, infatti, arriva fino alla soglia della morte: si può scegliere come posizionarsi "davanti alla morte". Come starci intorno, come avvicinarcisi. Poi segue "lo sconfinato silenzio di questi spazi che non mi conoscono". Per i buoni e per i cattivi giunge la morte. Questo non sta a dire che la morte vanifica ogni agire etico o annulla gli sforzi di un'esistenza, ciò è falso. La morte è l'unica esperienza uguale per tutti e questa uguaglianza risiede nel suo impenetrabile mistero. 

Attorno alla morte. Un "ambiente spaziale" di L. Fontana

V'è un morire anche nella vita. Esso si manifesta in tutto ciò che nella vita è minaccia la nostra "completezza", la nostra integrità anche fisica, che sfugge al nostro controllo e può essere solo "subìto" . Ciò crea, nell'uomo e nella donna, disagio e paura. Il Cardinale Martini, in una bellissima lettera pastorale intitolata "Sto alla porta", scrive:

"Ostentare ricchezza, potere, sicurezza, salute, attivismo, sono tutti espedienti per esorcizzare l'angoscia del tempo che ci sfugge dalle mani. Parlavo di una "cosmesi" della morte, appunto perché noi cerchiamo di abbellire il consumarsi del tempo, che della morte è il simbolo, esaltandoci nel consumo di beni illusoriamente duraturi. L'esorcismo funziona come un "trucco" escogitato per prolungare la nostra partita con la morte; eppure sappiamo che la partita non potrà durare all'infinito, e la morte avrà l'ultima mossa."

Comportarsi come è osservato dal Cardinale significa riempire quelle crepe, quelle minacce alla nostra interezza con altro potere, ostinarsi nel voler definire autonomamente il perimetro della vita anche quando si manifesta l'incontrollabile. Qualcosa piomba sulle nostre vite e siamo costretti a subirlo, non è possibile allontanarsi dal morire: nulla ci restituirà quella relazione finita male, quel tempo sprecato, quella scelta sbagliata né annullerà quel dolore. Ci scontriamo con il nostro limite e non possiamo essere pazienti, non possiamo mettere distanza tra noi e questi fatti, e allora proviamo a metterci rumore, a distrarci. Eppure si muore e si soffre. 

Il morire, infatti, non è che la versione microscopica del fenomeno assoluto della morte. Sono sostanzialmente identici, sono spazi di perdita, datità, mancanza di controllo. Se qualcosa cambia è necessario che cambi in entrambi i contesti. 

Un uomo muore e vive ancora. Ingloba questa maestà in un potere più grande, che è capace di superarla. La maestà senza volto della fine è superata dal viso vitale di Gesù. Vitale perché dà la vita, ci dice che oltre la porta "sono io, non temete!", vitale perché vuole il nostro bene, ovvero la nostra vita. I nostri morire, le nostre mancanze e limiti, non vengono spazzati via, piuttosto superati, inglobati. Allo stesso modo, non si zittisce la morte, né il dolore lancinante che genera, ma si assicura che ci sarà una parola in più. 

Mi viene da pensare che non cambi, fondamentalmente, il vocabolario dell'esperienza umana. Il limite e il dolore rimangono uguali, così come la morte. Rimane, allo stesso modo, la datità di tutte queste cose. Rimane una certa quantità di cose impossibili da contrattare, discutere, scegliere. Il tempo stesso. Esso scorre e definisce lo spazio della nostra vita molto di più di quanto siamo disposti ad accettare. Ciò che cambia è che questa datità giunge da un Volto che Parla. 

I greci avevano dedicato un altare al θεὸς ἄγνωστος, il dio sconosciuto. Un dio sconosciuto, un demiurgo muto e cieco, è il Dio della necessità, che costruisce il mondo come uno sfizio. "Non parla, non tace", fa accadere e basta. Gesù, invece, parla con noi, spiega come ad "amici, non servi", racconta la sua opera, ci dice che ha come fine la Vita dell'uomo e della donna. La sua parola non tanto striga il mistero della morte, che noi continuiamo a percepire come soglia, ma ci assicura che essa non è contro la Vita, ma è per la Vita. Lo fa attraversando tutti i morire e la morte, tutto il buio di questo mondo, affidandosi al Padre e risorgendo. La misura dell'amore di Dio non si riesce a misurare nemmeno con tutte le sofferenze e con la morte, di cui abbiamo già discusso il valore sommo e assoluto. 


La misura dell'amore. Crocifissione di Velasquez.

Gesù, morendo e risorgendo e in quella parentesi che non siamo capaci di nominare, ristabilisce un ordine per cui il morire non è il termine dell'agire umano, ma lo spazio del suo passaggio alla Vita: quando Gesù risorge ha un corpo luminoso, perfetto. Il tempo, inteso sia come trama limitata della nostra giornata sia come condizione epocale in cui siamo immersi, mantiene il suo enigma e la sua ruvidezza ma smette di essere un flusso insensato e infinito, ci è promessa una "ricapitolazione" e ci è assicurato che è già accaduta.

Ci sono due cose notevoli. Gesù così rigetta la possibilità del nichilismo, inteso come posizione di valori per cui le cose della vita passano dall'esistenza al nulla. Noi esistiamo per sempre, "siamo nati e non moriremo mai più". Ciò non svaluta la vita terrena, come capita di sentire, ma la custodisce dal baratro che annichilisce e svuota gli sforzi di un'esistenza, la pone in continuità con la vita eterna. Questo "eternamento" della vita umana è nell'amore. Noi siamo mancanti, insufficienti - è la realtà descritta dal peccato originale - e non potremmo accedere all'eternità con le nostre forze. Dobbiamo entrare a contatto con il limite, condizione essenziale dell'umano, e lì chiudere gli occhi, sulla soglia, e abbandonarci. Qui, al termine delle forze e della vita, Gesù riconosce il nostro valore infinito e la nostra figliolanza, ci ama e permette che non scadiamo nel nulla. 

Questo è lo sguardo vitale di Gesù che trasfigura il morire e la morte. Non che protegge dal morire, ma che ci aspetta alla soglia per dirci "ti amo, rimarrai".


Lo sguardo del Risorto. Un mosaico da Santa Sofia, Istanbul.


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