Sarajevo: chiuso in un mandarino

Non ho mai pensato il mare fosse importante. La città in cui sono nato è a una decina di kilometri dalla costa. La città in cui ho vissuto nell'ultimo anno e mezzo, Venezia, ne è immmersa. L'ho sempre ritenuto bello, soprattutto d'inverno. In Quinta Liceo scappavo dalle videolezioni, prendevo il primo autobus sottocasa e andavo al mare. Tutto sommato il mare, come le stelle e le colline e le nuvole e i castagni in cui ho vissuto, è una bellezza semplice, gratuita. Non l'ho mai sentita importante, per quanto pervasiva.

E' passato più di un mese e mezzo, quasi due mesi dal mio arrivo a Sarajevo. Settimana scorsa abbiamo noleggiato una macchina e siamo andati in Croazia. Poco dopo i controlli alla dogana la strada continuava ai bordi di un fiume, che andava allargandosi. L'acqua, intorno, si faceva sempre più grande, fino a costituirsi in bacini, intervallati da ripide colline rocciose. Abbiamo continuato a guidare: abbiamo visto un paesino disteso sul confine del fiume. Il mio amico al volante, L., mi ha fatto notare le barchette colorate appoggiate sull'acqua. Una sensazione di rassomiglianza si faceva strada, aiutata da un piccolo seme di nostalgia per la prima Pasqua lontano da casa. 

Abbiamo continuato a guidare, fino a che non abbiamo deciso che sì, questo paesino è quello giusto. Da almeno 20 minuti aspettavamo di scendere, muovere le gambe e magari guardare il tramonto sul mare. Abbiamo parcheggiato davanti ad una chiesetta, dentro celebravano la Messa del Venerdì Santo. Siamo scesi giù. In paese abbiamo incontrato: un po' di ulivi, il rumore del mare, un signore ubriaco, l'aria salata, un alimentari per comprare 5 birre e qualche snack, un gattino grigio, un hotel. Siamo andati in spiaggia. Abbiamo tolto le scarpe, abbiamo faticosamente camminato fino al bagnoasciuga tra i sassolini, infilato i piedi nell'acqua. Era gelata. Ho alzato gli occhi e guardato dentro il mare. Ho pensato che dall'altra parte c'era l'Italia e, da qualche parte verso nord, Venezia. 


Ho ripensato alle serate agli Alberoni, una spiaggia del Lido lontana dal trambusto e dal glamour della città. Ho pensato al primo bagno dell'anno scorso, al fiato corto che avevo, all'acqua che era calda. Al libro che leggeva S., a quando abbiamo beccato altri due amici. Mi sono poi girato verso l'entroterra. La massa rocciosa e scoscesa, certo, è molto differente dal mare della Toscana. Mi ricorda, però, una strana e per certi versi dolorosa estate triestina. Quello che si vedeva dal treno per arrivare a Trieste non era poi dissimile, per colori e pendenza. Ho puntato, poi, il mio viso così da vedere il paese e il mare, lasciando fuori le montagne.

Il mare e un paesino, avrei potuto vederlo ovunque. Con questi miei amici sarei potuto essere in Toscana, forse in Spagna, in Puglia o ad Alghero e credo pure in Grecia. Senza traccia di esotismo, c'era qualcosa che sapeva di domestico. Le estati al mare vicino casa, nella sabbia polverosa, il mio amico francese, i primi libri per ammazzare la noia, la Messa incompresibile e interminabile dei Padri Carmelitani. I viaggi fino al Sud con tutta la famiglia, la strada infinita, gli scherzi con le mie sorelle. La prima vacanza con gli amici, la festa nella terrazza di casa di M. ad Alghero. Il sole che brilla come una spada davanti alla costa alta di Capocaccia. Il treno che passa accanto al mare per accompagnare G. a Torino o per tornare da Milano. Poteva essere ovunque, certo, ma non era l'Oceano, anche se l'ho incontrato solo alla svelta. 

Poteva essere soprattutto il Mediterraneo. Come una grande piazza, come se il paese d'appartenenza fosse quello, il mare, e la terra fosse l'affaccio di un'unica patria. Un grande paese senza cittadini ma solo presenze temporanee, senza una lingua nè una bandiera, ma un rumore e un prisma di colori.

C'erano, per la strada, un paio di alberi di mandarino. Erano posti uno davanti all'altro, così che il secondo era appena visibile dietro il primo e accanto al muro di una casa. Là, in fondo, tra le foglie verdi scuro due mandarini, forse tre. Quei mandarini erano così distanti dalla neve rimasta sui tetti di Sarajevo o sulle montagne viste in macchina uscendo dalla città. I mandarini erano piccoli e perfettamente arancioni, un colore introvabile e originale nel paesaggio attorno. Mi hanno rapito, ne ho l'immagine mentale stampata nella testa. E' l'immagine di due mandarini come le estremità rigonfie delle serrature, come ce ne sono dentro le case. Dilà si vede un paese che non esiste, ambasciatori di un mediterraneo immaginario. Li ho guardati e ho cercato di inventare la parola inglese per mandarino per dire mandarino al mio amico tedesco. Lo ha capito, ma chissà se ha capito il mio entusiasmo.

Quando uno cresce si domanda di dove è. E', forse, un istinto animale o sicuramente un istinto tribale. Ho deciso. La risposta è una semplice evidenza e l'ho trovata chiusa in un mandarino. 

Se vuoi rimanere aggiornato sui contenuti che pubblico puoi iscriverti qui alla newsletter del blog.

Commenti

Post più popolari