Appunti dalla Peste: oltre i giochi a somma zero.

Aristotele

Sarà capitato a tutti di maledire, più o meno silenziosamente, un passante che non indossa la mascherina, che non si disinfetta le mani. Magari avete anche trovato la pazienza per farlo notare. Chi non ha fulminato con lo sguardo un vicino, un pedone, un pendolare? Situazioni abbastanza assurde per un paese come il nostro, abituato, nel migliore dei casi, a far finire le norme in tarallucci e vino. La peste ha soffiato via la polvere dalla parola "dovere" e ora ci troviamo a fare i conti con una infinità di piccoli processi, in cui spesso ci ergiamo giudici.  

Allo stesso modo sarà anche capitato a tutti di essere quella persona che non indossa la mascherina o si dimentica di seguire tutte le regole alla perfezione. Se in quell'istante avete avvertito una piccola scossa sappiate che sì, qualcuno vi ha maledetti nel silenzio. Può anche succedere che pur dimentichi della mascherina ci irritiamo per gli scivoloni altrui. Volendo correggere un Altro, ci troviamo a dover prima di tutto a riconoscere la nostra mancanza e, probabilemente, a perdonarla. 

E' proprio questa situazione che vorrei esplorare oggi. C'è una giustizia che non ha bisogno di un arbitro e che, forse, è più efficace del convenzionale modo di pensarla. 

Aristotele definisce la giustizia come l'equilibrio tra una perdita e un guadagno, che il giudice deve ristabilire nel caso di un crimine:

Il giusto che stabilisce la correttezza viene a coincidere con l'intermedio tra perdita e guadagno. [...] Il giusto nei rapporti che violano il volontario, è intermedio tra un certo tipo di guadagno e di perdita, e consiste nell'avere l'uguale sia prima che dopo il rapporto. (Etica Nicomachea, V libro)

La giustizia di Aristotele ha, forse, un pregio e un difetto: è incredibilmente "piantata a terra", concreta, misurabile e attuabile. D'altra parte però è una giustizia che ripara ma non genera, che è sterile.

Non è detto che la giustizia debba essere effettivamente generativa, ma perchè no? La giustizia tra passanti durante la peste ha almeno tre novità rispetto al paradigma proposto da Aristotele. 

Prima di tutto devo controllare se io ho la mascherina. Secondariamente, pensando a come tu stai violando una norma non posso che tenere a mente tutte le volte che io ho avuto la stessa dimenticanza. Oppure ancora più paradossalmente voglio correggere un errore che sto facendo anche io. In terzo luogo non c'è un giudice che stabilisca un equilibrio.

La prima novità è, secondo me, la più interessante. Mentre richiamo te al tuo dovere richiamo anche me allo stesso compito. Avvicinarsi al giusto così significa procedere su un doppio binario, in cui l'avanzamanento dipende da due spostamenti opposti. Uno è quello che mi spinge verso di te, per mio interesse e in ottemperanza ad una norma. L'altro è quello che spinge verso l'interno, per rendermi più "degno" di correggerti e per essere anche io ottemperante alla norma. Ciò comporta che il senso di responsabilità trasformi la correttezza da sterile a dinamica e feconda. Sfruttando la predisposizione umana a correggere le pagliuzze altrui si fa in modo che il cittadino impari a guardare la propria trave e a correggersi. Si abbandona la somma zero e la giustizia smette di essere retributiva per divenire produttiva. La giustizia non si limita a ristabilire un equilibrio ma che crea ulteriore giustizia, avvicinando la comunità al futuro e non restituendola al passato.

Il secondo elemento ha come premessa la fallibilità umana. Giudicandoti non solo con il metro di una legge astratta ma con la mia stessa esperienza cambiano molte cose. Non perforza cambia, volendo riflettere su violazioni più gravi e meno accidentali, la necessità di una pena seria, ma può cambiare l'atteggiamento della comunità che valuta una infrazione. Bisogna tenere a mente gli errori che ognuno di noi ha commesso, soprattutto se non in totale libertà, (tradire una persona cara, disattendere per distrazione o meno un dovere, preferire l'io ad un gesto di cura etc) e essere consci dell'infinita concatenazione di resposabilità intangibili (per esempio al peso dell'educazione ricevuta) che portano ad un atto tangibile e punibile. Pur non cambiando la gravità della colpa altrui, così si apre la possibilità che l'ultima parola non sia la punizione, ma il perdono. Riconoscendo i miei errori riconosco a te la possibilità di sbagliare, rendendo meno assoluta la tua responsabilità. Se l'idea di una responsabilità totale è la più comoda risposta alla necessità di una comunità di trovare un colpevole essa è chiaramente una astrazione e rischia di porre una spada di Damocle sulla vita di ognuno. D'altronde scrive Hannah Arendt:

Ma il peccare è un evento quotidiano, nella natura stessa dell'azione che stabilisce continuamente nuove relazioni in un tessuto di relazioni esistente, ed è necessario che sia messo da parte, per consentire alla vita di proseguire prosciogliendo gli uomini da ciò che hanno fatto inconspevolmente. (Vita Activa, Cap. V)

Il fatto che non ci sia nessun giudice in quel momento a sorvegliare il processo ha due possibili conclusioni. La prima consiste nel successo dei due elementi precedenti: tu sbagli, io correggo me, ti correggo e perdono. E' l'opzione migliore, quella che tutti ci auguriamo. La seconda opzione consiste nella possibilità del cittadino di sfruttare l'inadepienza altrui per giustificare la propria. E' un esito deleterio e mafioso e, purtoppo, non eccezionale nei comportamenti di tanti di noi.

Quello che, credo, possa salvarci è un senso di responsabilità diffuso e, in qualche modo, immaginato. Pensarci materialmente responsabili di una comunità per noi immateriale (dato che non potremo incontrare tutti i componenti) è ciò di cui abbiamo fatto esperienza nei momenti più difficili della peste. La reazione di ognuno alle immagini dei feretri trasportati fuori da Bergamo ci ha fatto sentire una nazione, cosa rara per il nostro paese. Uniti non da un inno, da una bandiera o da una Storia ma dalla condivisa responsabilità su quei morti tra milioni di cittadini. Questo pungolo, immaginato ma tangibile, educa e ravviva la coscienza delle persone.

Quando la peste finirà, teniamo a mente che bisogna essere responsabili eppure misericordiosi, perchè il gioco al più puro è un gioco al massacro. Che il vicino bisogna poterlo correggere ma che questo significa mettere in discussione anche la nostra posizione. Che punire è doveroso, ma che la vita comunitaria è una storia che non può fermarsi davanti alla colpa e che la partita della vita in comune è più grande e bella di un semplice "gioco a somma zero".

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