Appunti dalla Peste. L'inverno della solitudine

Quam raptim ad sublimia
(Quanto prima alle cose sublimi, incisione nella sala di Raffaello nella Pinacoteca Vaticana) 
In questi mesi la solitudine è stata, per alcuni, una scoperta. Per tanti una coinquilina ingombrante, per altri una vecchia amica a cui ricongiungersi. Sento che per me la solitudine è stata tutte e tre queste cose e non credo di essere l'unico. 
Credo che gran parte di noi l'abbia detestata, ma a tratti anche apprezzata, sotto sotto. E' diventata una compagna ormai abituale. Personalemente la avverto più vicina che in nessun altro momento della mia -breve- vita. Nelle usuali passeggiate, nello studio, nel pensare e nel fare, come un'ombra, come un'aureola. E' facile pensarla come una malattia. Come una stortura del nostro tempo. Questa è solo una parte della storia. 

Per questo itinerario nella solitudine ci accompagna un brano di musica classica. E' breve e contemporaneo: si tratta di "Winter 1", parte della ricomposizione di Max Richter delle Quattro Stagioni di Vivaldi. Potete ascoltarla qua sotto o cliccando qui se avuto questo articolo via mail.



Richter e Vivaldi simulano l'inverno, io credo che descrivano un po' il viaggio delle donne e degli uomini nella solitudine. Si tratta di un crescendo a partire da pochi suoni, inquieti, che si trasformano in una variazione di scoramento e quiete, che si accumula, e come un'onda arriva a un momento di grande intensità, ad un ripetersi modulare di crescente potenza e costanza. L'inverno, che si è insidiato nell'ascoltatore, finalmente sboccia, non chiede il permesso, guida, infuria, volteggia, risuona forte e deciso. 

Entrare nella solitudine può essere un incubo. Può avvelenare la nostra giornata e portare con se sensazioni stridule, pungenti, stonate, come le note iniziali. Possiamo interrompere subito l'esperienza, distrarci, chiuderci nel caldo di casa e negare l'inverno, vicini alla fiamma di qualche istante. 

Possiamo, invece, permettere che l'inverno trasfiguri i luoghi della nostra quotidianità. La vita che a volte va avanti come un rito può assumere nuovi toni, ricchi di significato. Capita che percorrendo una strada usuale senza la solita fretta ci ritroviamo a fissare un dettaglio, o vi cogliamo un valore nuovo. E' merito dell'inverno, che sfronda gli alberi e lascia che l'essenziale, il tronco e le radici, conservi il suo calore. Tutto ciò che la solitudine schiude c'era anche prima, ma l'inverno lo invoca. La solitudine strappa le foglie delle giornate, zittisce violentemente i pomeriggi, congela l'abitudine. Rimane solo il cuore, solo il senso.

Nel presente congelato della solitudine l'animo può dare il suo meglio. Come il corpo che nei momenti di sforzo consuma le riserve accumulate nel tempo, il pensiero si mette a lavorare con maggior frutto quando il presente tace. Non si tratta, però, di attività speculativa: al contrario, lo sguardo si posa proprio sulla quotidianità sospesa. Il tronco e le radici, che sopravvivono alle foglie, continuano a vivere per le foglie, dell'estate passata e della primavera ventura. E' minore il rischio di sognare ad occhi aperti, perchè il freddo ci richiama alla contingenza, a differenza della routine da cui generalmente vogliamo separarci.

L'inverno, ora, infuria. La vita che sempre noi guidiamo, ora vola libera, verso vette inquietanti e altissime. Le tristezze insensatezze che teniamo a bada ora galoppano libere. Le gioie rifulgono trasparenti. Senti che paura, senti che gelo, senti che vivacità, senti che energia. I soliti luoghi acquisiscono la nobiltà dell'esistenza, non sono più semplicemente attraversati. E' l'inverno, che strappa e rivela, libera, crudelmente. 

La tempesta si è quieta, le nuvole si aprono, il sole illumina un'apparenza restituita. Come un sogno che si conclude, come una visione che si racchiude in sé stessa. Il vento vola via, rimane, per terra, un po' di neve.

Giorgio Morandi, Paesaggio, 1944 ©Museo Revoltella, Trieste

Non è sempre così, ovviamente. Mi sembrava però giusto dare voce anche al buono di questa nostra compagna di viaggio. E' un invito, per me e per chi mi legge, a lasciare entrare un po' di inverno nelle giornate. Al posto del calore del fuoco, artificiale e controllato, potremo cogliere quello eterno e forte del tronco dell'albero. Al posto dei ciocchi secchi, la linfa verde. 

E dopo la neve? Godersi il paesaggio e sapere che, almeno per un po', il nostro attraversare è un camminare significativo: sulla neve si lasciano le impronte. Il nostro vagare è chiamato ad assumere un'altra statura. 
Grazie solitudine, grazie inverno. 
Un abbraccio a chi mi legge. 

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