Appunti dalla Peste. La voce muta della scuola.

Scrivo questi appunti al parco, in una fuga dagli schermi che assediano la mia attenzione ogni ora, ogni giorno. È da un po' che non pubblico: ultimamente ho scritto tantissimo, ma parole confuse, rabbiose, tristissime. Qui, su questo blog, invece cerco di unire un po' di cronaca di questo tempo straordinario a qualche spunto per impararne qualcosa. Qui non c'è spazio per tutta la verità di questi mesi assurdi e, dovendo scegliere, preferisco condividere pensieri che vorrei fossero quanto più fecondi e generativi. Questa operazione è stata più faticosa del solito e, tra le varie ragioni, c'è anche la scuola. Frequento l'ultimo anno di liceo classico e la fatica e la mancanza di motivazione si fanno sentire ogni giorno, soprattutto in teledidattica. Una sofferenza, questa legata alla scuola, che mi colpisce per un aspetto della sua natura: la percepisco come squisitamente individuale, non mi rendo conto se sia condivisa o meno dai milioni di colleghi. Capita che ci vicendevolmente confessiamo, ma continuo a vivere questa tristezza come se fossi l'unico. Una tristezza condivisa, causata da un fenomeno collettivo, che si declina frammenta in un'infinità di piccole, profonde, individuali solitudini. 



Io amo la scuola, e uso il presente - con un'apparente contraddizione - perché sono convinto che ciò che mi costringe al PC diverse ore al giorno sia qualcos'altro. Amo la scuola, adoro imparare, godo nello studiare. Ho avuto il privilegio di nascere in una "buona famiglia" e ho quasi sempre vissuto lo studio con serenità. Mi sconsola vedere una comunità così bella come la scuola, seppur da tempo malata e decadente, sopperire al peso dei tempi. 

La scuola, ci dicono, serve per prepararsi al futuro, eppure noi la sentiamo crollare, sotto i nostri sederi, sprofondare sotto il peso del presente. Mi dispiace per gli insegnanti: per quelli che ci mettono la buona volontà, ma non hanno gli strumenti culturali o materiali per riuscire nel compito, così faticoso eppure così urgente, che è insegnare a vivere nella Peste. 

Nel monachesimo medievale la grammatica era il fondamento della formazione e considerata una materia nobile. Evangelizzare significa portare il latino, una lingua precisa, a popolazioni che usavano lingue inadatte ai Misteri, lo dimostrano, per esempio, l'impegno linguistico dei monaci mandati da San Gregorio in Inghilterra. Curiosa è l'affermazione di Smaragdo, abate di Saint-Mihiel del IX secolo, che scrive un trattato di grammatica nel quale insegna che 
E' principalmente per mezzo del latino che gli eletti sono introdotti alla conoscenza della Trinità ed è attraverso questo che devono giungere alla vita eterna. (Smaragde et la grammaire chretienne, 1948)

E' impossibile capire la Salvezza senza poterla nominare lucidamente, comprendere attentamente, interpretare con rispetto e originalità. 


Dovremmo imparare dai medievali e riconoscere che la letteratura, la matematica, la fisica, servono a capire come si sopravvive alla Peste. Lo studio è il perseverare nel tentativo di comprendere la realtà, sfuggevole e articolata com'è. Quanto spesso il mondo pare rotolare sotto i piedi, sfuggire dalla comprensione che ne abbiamo, e soprattutto in questi mesi ci sembra che ogni avvenimento eroda il raziocinio rimasto. Lo studio, la scuola, è il fortino contro il disordine spaventoso che assedia, da più di un anno,  ogni conversazione e orchestra ogni incubo. La scuola è il baluardo del capire in un mondo tendenzialmente vomitato, incompreso, estraneo. Se crolla la letteratura, la matematica, la matematica e la biologia, rimaniamo preda di un mondo selvaggio e spaventoso. 

Mi spiace moltissimo per gli studenti che non ce la fanno, per quelli che sono abbandonati al caos buio di essere giovani nella Peste. Mi domando se chi vi ha lasciato fuori dal fortino sente il peso della condanna che imputate. Una condanna senza appello. Vedo i vostri occhi delusi e sento la vostra rabbia. La scuola a volte si dimentica quanto vale per noi studenti, non sanno forse che quando si presenta un nuovo professore la prima cosa che facciamo è pensare "fa che non sia il solito stronzo!". 

Diceva don Milani che solo la parola fa eguali e chissà mai quale colpa avete, amici, perché vi venga negata questa naturale vocazione. 

Oggi, sul diario della Peste, scrivo dell'ammutolimento di questa vocazione alla vita civile. So che il domani non riparerà nulla, né fugherà le notti di chi ha preferito imputare piuttosto che vocare. 

Io sto qui, nella Peste, con la mia tristezza e la mia rabbia e scrivo per immaginare città nuove, dove le voci si mischiano e i volti si scoprono. Ci sono, cari amici, anche le vostre voci a dare forma alle strade e ai palazzi di questa città, dove a tutti i ragazzi abbandonati si regala un vocabolario. 

Vi abbraccio

 (P.S. tra poco non sarà più possibile ricevere i nuovi post per mail. Cerco una soluzione, ma intanto ricordate di venire a trovarmi una volta ogni tanto!)

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