La Città: le sue voci, la sua metrica, il suo sogno.

Forse questo giardino esiste solo all'ombra delle nostre palpebre abbassate, e mai abbiamo interrotto, tu di sollevare polvere sui campi di battaglia, io di contrattare sacchi di pepe in lontani mercati.

(Le Città Invisibili, Italo Calvino) 

Questa settimana ho avuto la possibilità di tornare nella città in cui ho vissuto per diversi mesi un paio di anni fa. Da quando è scoppiata la Peste ero tornato ad Arezzo una volta per recuperare i vestiti e i molti libri che avevo lasciato nella mia stretta - e condivisa - cameretta e un'altra volta per ascoltare Liliana Segre, in autunno. In queste occasioni ho speso molto più tempo ed attenzione a Rondine, la Cittadella della Pace, a cui sono, effettivamente, legato assai più intimamente. 
Stavolta, invece, la mia attenzione va proprio alla antica città toscana. Una volta arrivato ho un po' passeggiato per le strade del centro. Ho avuto, presto, una pungente e incompleta rivelazione: conosco quelle vie, i palazzi, le stradine e i cartelli; non so di alcuni nuovi negozi, non trovo più certi dettagli, alcuni posti sono scomparsi, non riconosco nessun volto. 
Non abito qui, eppure non sono uno straniero in visita. Conosco questa città, eppure non è la mia. 
Che rapporto c'è tra noi e i luoghi da cui ci allontaniamo? 

Gibellina, la città fantasma di Burri in una fotografia di Aurelio Amendola

La vita della città prosegue come un grosso e pulsante formicaio, mentre noi, solitarie formichette viaggiamo verso altre montagne sabbiose. Questo è il primo dato: la vita cittadina che scorre in mille rivoli inediti e prosegue come uno spettacolo. A noi, che prima stavamo al centro della platea, quando torniamo pare che sia proseguita senza spettatori, ma siamo vittime di uno sciocco gioco di prospettiva. Come in alcuni quadri antichi, in cui lo sguardo del soggetto sembra seguirti, proprio te, mentre fissa tutti i suoi osservatori, o meglio nessuno di essi. Così la città, che ci sembrava essere nostra, si rivela un luogo e non un possesso.
Contemporaneamente, però, la città ha importanti aspetti di permanenza. Rimangono le vie, gran parte degli edifici, il paesaggio che si osserva. Come una metrica fissa che non è a disposizione dei numerosi autori del momento. Questo immutato cadenzare, che consola il nostalgico viaggiatore, permette l'intelligibilità della città oltre i cambiamenti correnti. Mentre il possesso è pienamente a disposizione del proprietario, il luogo ha una fisionomia che, almeno su una dimensione temporale limitata, è immodificabile.

Il rapporto tra noi e la città, però, non può essere così manicheamente schematizzato. Credo vada aggiunto un altro elemento, perché la cittadinanza non è solamente un dato fisico. Nei mesi consumati lontani da Arezzo, nel mio caso, ho pensato e sognato la città e sarebbe insincero non considerarli "nel conto". Io sostengo che il tempo sognato o pensato corrisponda al tempo vissuto in un tale posto. Uno potrebbe addirittura sostenere che il tempo in cui si desidera essere in un dato luogo sia il tempo in cui la cittadinanza cresce più prosperosa, sia che uno possa soddisfare o che non possa soddisfare questo desiderio. E' una tesi ardita, che non mi sento di propugnare con convinzione, ma che ha un suo valore poetico. I luoghi sognati, i luoghi attesi, i luoghi pensati e desiderati sono luoghi che davvero si abitano.

L'elemento mutevole, l'elemento permanente, l'elemento sognante. Sarebbe bello essere capaci di comporre una panoramica su quali significati umani e culture hanno attribuito a queste dimensioni: ho in mente i miti sulle origini delle città della cultura ellenistica, le mistiche e politiche visioni della Gerusalemme Celeste, i paesaggi danteschi, la più o meno disabitate città ideali del Rinascimento, ma anche i grandi piani urbanistici di Ottocento e Novecento, infine - ovviamente - Le Città Invisibili di Calvino; il resto non lo so.  
E per voi, cos'è Città? Potete scrivermi a giovannicerboni@gmail.com, oppure commentare qua sotto.

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