20
E in ciò che non è più ma che noi siamo
Comunque riviveva l'evidenza
Di cui serbano sete parole che abbiamo
(da "Insieme la musica e il ricordo" di Y. Bonnefoy)
E' la settimana del mio compleanno. Il compleanno è sempre un po' una tappa di verifica, un momento per guardarsi attorno e dire "grazie". I 20 hanno un fascino speciale: un bel numero tondo, mi ha scritto un amico. Se ci penso di buona parte di questi 20 non ho ricordo, soprattutto gli anni della primissima infanzia. Siamo visti e poi ricordati senza vedere e senza ricordare. Siamo capiti prima di avere una coscienza di noi. Qualcuno, quando cresciamo, ha l'audacia di dire su di noi una parola, una profezia. Questi 20 sono stati anche questo, una miriade di carezze e di parole di cui nutrirsi e poi dimenticarsi. Penso a quei luoghi che sono il mio volto almeno quanto è il mio naso; Credo di averle dentro di me, qua sulla faccia il muschio sul muretto della casa dei nonni, l'odore di tufo umido per le scale, il colore del pavimento di cotto della mia casa d'infanzia. Un campanile a punta e una tettoia, un campo di cemento. Un borgo vicino al fiume, una torre tronca. 20 anni di promiscuità con i luoghi, una geografia che viene assorbita, come quando si attacca un cartello all'albero e quello, forse in una decina d'anni, inizia ad arrotolare attorno la corteccia.
Penso alle persone che mi hanno amato e guardato con affezione mentre io fissavo i miei giochi, oppure i primi libri. Che fine fanno quegli occhi? Magari sono questo neo qui, sotto l'occhio destro, che non sembra avere un senso e invece ha un significato. Lo zaino che ho con me è pieno di misteri, di cose che mi sono state donate, che non ho voluto. Non riesco a toccarle tutte, non sono tutte a mia disposizione. Penso ad alcuni interessi, che sono il frutto di un suggerimento dimenticato, di un'indicazione vaga di un professore mediocre. Non so la genesi di tanto di me. Non è tutto bene, c'è qualcosa da scartare. In quei casi le cose diventano talmente pesanti da cadere da sè. Non so, forse il male non rimane, oppure piano piano si sbiadisce, diventa una toppa.
Sulla faccia ho anche un sacco di cose che non servono a niente. Forse già a vent'anni si è pieni di soprammobili. La forma degli ulivi, l'odore della schiuma da barba, il colore del fuoco nel camino, la distorsione della voce nelle chiamate, l'inchiostro blu, saltare per raccogliere un fico dall'albero. E queste cose? Che farne? Nulla. Sono contento che si accatastino, che le cose non abbiano significato. E' un esercizio utile farsi rotolare addosso un po' di mondo. Gli ulivi sono contenti di piacermi e il blu ama essere preferito al nero, il fuoco si inorgoglisce quando lo guardo. Ci sono bellezze che non mi portano da nessuna parte.
Sono stati anni di desideri e di attese. Qualcuno mi ha detto che ora è il momento di rendere la vita più simile a quei desideri. Forse è vero. Per un attimo, però, mi siedo. Sono all'ombra di questi desideri, di questi occhi e di queste voglie. C'è una bellezza strana nell'incompiuto, nell'irrisolto. Forse è questa la bellezza dei 20 anni: un sacco di interrogative, di slanci. Si è ancora in corsa, anzi si è in piena corsa. L'equilibrio è un ideale inaccessibile. Non vorrei fosse altrimenti. Anzi, al massimo un può, marginalmente, scegliere su cosa ruzzolare. Su cosa battere la faccia. Davanti a cosa piangere.
Stona che un ventenne scriva di questo compleanno senza accennare nemmeno una parola sul futuro. Da qui non si vede, oppure - al contrario - ne è tutto talmente pieno. Tutto è un seme, una proposta, un invito. Non tutto è un seme pieno, qualcosa lo si scopre vuoto o marcio. Perchè, però, dovrei pensare a posta al futuro, quando mi sembra di respirarne fin troppo, quando già ci sono dentro? Seduto qui, sotto l'albero dei miei desideri, vedo i rami e le liane allungarsi bene.
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