Sarajevo: la pagina a destra

Salgo su per la salita di casa mia. Piove a dirotto e questa mattina non ho preso l'ombrello. Piove ed è sera, le strade di Sarajevo non sono illuminate come le nostre - anche se questa è impreziosita dalle luci di un minareto. Non vedo molto intorno a me: l'aria è sfilettata dalla pioggia, ho il fiatone, tengo il capo chino per evitare il fastidio dell'acqua tiepida sulla faccia. Mi pesa lo zaino: ci sono due bottiglie di vino, il pane che ho appena comprato, il computer e il caritore e un taccuino, la penna di plastica gialla, qualche libro.

Sto tornando da un pomeriggio con due ragazzi portoghesi, P. e L., e pure un ragazzo di Sarajevo, M. Ho chiesto a M. se sia serbo o croato o bosniaco - dice che il padre è croato e la mamma bosniaca; i serbi gli stanno abbastanza antipatici, col loro nazionalismo velenoso che "non ci rende un paese normale", ma pure i croati esagerano un po' col cristianesimo; la maggior parte dei suoi amici, alla fine, sono bosniaci, ma atei: l'islam qui ha cambiato un po' forma, non è più "quello di chi è abitato a vivere con altri, a bere un po'" e a lui non piace per nulla. 

M. alle ultime elezioni ha votato come bosniaco e anche come croato. qui la politica è incartata da un sistema bizantino pensato a Dayton, Ohio, Stati Uniti, 8.000 km da qui. Tutto è diviso, o moltiplicato, almeno per 3 per garantire a ogni "popolo costituente" un'equa rilevanza. E poi ci sono i serbi che hanno una loro "Repubblica" e, a detta di M., scalciano parecchio. M. mi dice che qui, certo, tra diverse etnie ci si saluta volentieri per strada - ma lui non ha amici serbi: "al massimo conoscenti". Qualche sera fa una ragazza mi aveva detto che, secondo lei, l'unico posto in Bosnia Erzegovina dove i tre popoli si incontrano ancora a scuola, a lavoro o perfino in casa è Sarajevo: "nel resto del paese sono state create città etnicamente pure". 



Oh, ma che fiatone. Dalla mia sinistra una voce di donna, parla a un uomo che sta un po' più a destra. Mi sembra che parli spagnolo. Per un attimo il cuore mi batte più forte. Certo, il mio spagnolo è quello che è, ma insomma, tra mediterranei ci possiamo capire. Tolta l'isola di comunicazione immediatamente in inglese del gruppo di studenti in scambio Sarajevo è un mare di gesti, espressioni facciali, richieste tipo "ingleski?" o "no bosniski!" per dire che al massimo possiamo parlare in inglese, ché di bosniaco non ne so nulla. E' un'esperienza bizzarra essere circondati da stringhe di parole incomprensibili. Non è rumore, ma non è, per me, dialogo, linguaggio. 

Non è vero. Alcune parole le capisco. Soprattutto una. Qui si dicono tutti "ciao": per strada, entrando in un negozio o in un caffè. Lo fanno con precisione e sicurezza, a me ogni volta sembra che la conversazione continuerà in italiano. Poi non è così. Il tassista che mi accompagna all'ufficio visti mi dice anche "vecchia signora" e qualche battuta di Troisi o qualcosa del genere. Dell'Italia, qui, le persone si ricordano il calcio, la ricetta della pizza che vendono al taglio quasi come da noi - ma in fette larghe il doppio e saporite la metà. Nei caffè eleganti del centro si beve caffè Lavazza e tanti negozi un po' presuntuosi infilano una parolina italiana qui e una là. Ho pure bevuto un espresso, lungo ma buono come lo fanno qui, sotto un faccione di Dante Alighieri. Cose che in Italia vivono solo nella fantasia di arditi ministri della cultura. 

Sono un privilegiato, so bene l'inglese. Con i ragazzi Erasmus parliamo sempre in inglese. Si dice che cambiando lingua si cambia personalità, non sono convinto possa essere così per lungo tempo. E' curioso, però, ripercorrere in un'altra lingua le risposte che pronuncio automaticamente in italiano: cosa vuoi fare dopo l'università? hai fratelli o sorelle? che tipo di musica ascolti?. Il trasloco della personalità ha un effetto chiarificatore. Mi ritrovo a capire che quella risposta è davvero troppo fuffosa, che alla fine ascolto principalmente un tipo di musica, che posso spiegare l'alternanza di maschi e femmine nella mia famiglia con un'altra geometria. 

Mi annoiavo, sono entrato in una libreria internazionale, alzando gli occhi ho visto un'edizione bilingue del "Paradiso". Ci ho pensato: le note a piè di pagina sono poche, ma magari è un vantaggio. L'ho comprato. Leggo l'italiano, eccezionale, e se non capisco uso l'inglese come parafrasi. Leggo una terzina e penso "cavolo, questa è la mia lingua". Incontro un uomo così distante e possiamo capirci. Sposto gli occhi sulla pagina destra, col testo reso in inglese, pure quella è la mia lingua: la traduzione. Questo paese, e i paesi dei miei amici Erasmus, li conosco tutti in traduzione. Se ci penso bene, quasi tutto quello che studio, a Sarajevo e altrove.

Qua tutto è moltiplicato per tre. Pure la lingua. I serbi scrivono in cirillico, ma a quanto ho inteso ognuno capisce gli altri due, non c'è bisogno di traduzione. Chissà cosa pensano leggendo Dante: la pagina a sinistra, col testo italiano, è la stessa in tutti i paesi del mondo. Però, forse, in questo angolo di Europa, pure quella a destra, alfabeti a parte. 

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